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LIBRI

 

Francesca Salvador
MATRIMONIO E SACERDOZIO. Viaggio nell’anima. La poesia dell’accoglienza.
Crescentino (VC) 2011 – Edizioni Millecuorionlus – pp. 187

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RECENSIONE

La chiesa italo-albanese di rito bizantino

La scorsa estate, per la seconda volta, ho di nuovo scelto la Calabria per le mie vacanze estive, che ho trascorso, insieme alla mia famiglia, a Torremezzo di Falconara Albanese, provincia di Cosenza, in una casa sul mare messaci a disposizione da amici calabresi. Ci siamo goduti la spiaggia infuocata, la limpidezza dell’acqua, il fascino dei tramonti sul mare, cosa strana per chi è  abituato a vedere scendere il sole tra i monti. Una volta siamo anche riusciti a scorgere la sagoma dello Stromboli. Abbiamo ammirato lo splendido castello di Fiumefreddo arroccato sullo sperone della montagna  a picco sul mare, le serate rumorose di Amantea o di Paola, che terminavano con il classico cornetto a mezzanotte; gustato il pesce al ristorante Dragut dal nome di un famoso rinnegato calabrese che aveva fatto fortuna a Tunisi come capo corsaro ‘barbaresco’.  Il tutto trascorso e vissuto insieme ai nostri amici calabresi, una splendida famiglia con tre figli adolescenti, davvero normale, se non fosse per il fatto che papà Giuseppe è anche il parroco di Falconara Albanese, regolarmente sposato con Francesca nel 1985 e ordinato prete dal suo vescovo nel 1988. Insomma, nel linguaggio ecclesiastico, un “prete uxorato”, un prete cioè ordinato “sacerdote” dopo aver celebrato il sacramento del matrimonio. Non un prete che si è sposato dunque, “gettando la talare” ma un “uomo sposato” che è stato ordinato prete.

Il fatto sembra davvero curioso. Poche cose infatti vengono percepite così sacre e così assolute come la circostanza che il prete cattolico sia una persona che si dedichi totalmente a Dio  e debba per ciò stesso restare celibe. Celibato e servizio totale a Dio sembrano includersi per definizione. Dedizione a Dio ed esclusione della sessualità, anche biblicamente santa (è il primo comandamento dato da Dio all’uomo e alla donna appena creati – per gli ebrei era peccato non sposarsi), appaiono alla maggioranza come cosa ovvia. Eppure le cose non stanno affatto così. Si sa che i Protestanti hanno i loro pastori sposati, ed ora molte chiese protestanti hanno addirittura aperto il ministero alle donne. Si sa inoltre che tra gli ortodossi ci sono preti sposati, anche se la chiesa ortodossa ci affascina con i loro ‘patriarchi’ dalle folte barbe, dagli strani copricapi e dalle lunghe tuniche nere; iconografia semmai ancora più sacrale di quella cattolica. Dunque nelle ‘secolari’ chiese protestanti e nelle ‘sacrali’ chiese ortodosse il celibato dei preti non fa problema, sia che esista (per gli ortodossi) sia che non esista (per i protestanti) un presbiterato celibatario. Nella chiesa cattolica se si parla di preti e di sessualità lo si fa in genere o per raccontare barzellette boccaccesche, o per parlare di scandali (le accuse di pedofilia) o perché qualche noto prete si è ‘spretato’ per amore di una donna. Insomma appare sempre come una trasgressione particolarmente deprecabile.

Il Concilio Vaticano II, riprendendo la migliore tradizione teologica del secondo millennio, costruisce quello che può essere definito il teorema della triplice vocazione cristiana: vita consacrata, ministero presbiterale e vocazione laicale: la ‘vita consacrata’ caratterizzata dai tre voti e dalla fuga mundi come segno e anticipo della realtà escatologica; il ‘ministero presbiterale’ caratterizzato dal celibato come segno di dedizione totale a Dio per la guida pastorale e la vita sacramentale della chiesa; la ‘vocazione laicale’ caratterizzata dalla vita familiare e dall’immersione nelle realtà del mondo per fermentarle con il lievito evangelico. Dal punto di vista della spiritualità pratica, però, la teologia cattolica sembra non fare molta differenza fra la vocazione monastica (con i suoi tre voti di obbedienza, povertà e castità) – tenuta in grandissima considerazione anche nel mondo ortodosso ma storicamente inesistente nel mondo protestante – e il ministero presbiterale celibatario. Entrambe le ‘vocazioni’ incarnano in maniera eccelsa l’homo religiosus, una dedizione totale al Regno di Dio e alle cose celesti. La terza vocazione, quella del laicato, nonostante la grande rivalutazione del Concilio Vaticano II che ne ha fatto rilevare il carattere di via alla santità, è una vocazione compromessa con il mondo secolare e pertanto poco adatta alle ‘cose sacre’.

Ma se guardiamo alla storia, ‘magistra vitae’, troviamo che nella bimillenaria tradizione ecclesiale c’era un tempo, durato oltre mille anni, che le cose non stavano proprio così; e parliamo del millennio ‘fondante’ a cui si rifanno più o meno tutte le tradizioni cristiane, i cui teologi vengono chiamati “Padri della Chiesa”. Fino al Secondo Concilio Lateranense (nel 1123) non esisteva nella chiesa cattolica latina un obbligo del celibato, anche se nel corso dei secoli diversi sinodi locali avevano già adottato questa norma, ma mai a livello universale.   Vigeva nella Chiesa Latina (cattolica)  la stessa regola della Chiesa Greca (ortodossa): il sacramento dell’ordine veniva conferito sia a celibi che a sposati. Dunque i ‘laici’ sposati potevano accedere al sacramento dell’ordine. I monaci celibi, al contrario, non accedevano affatto al sacramento dell’ordine; erano e restavano ‘laici’ da questo punto di vista. In effetti, soprattutto nell’occidente latino e cattolico, questi monaci tutti dediti al servizi di Dio erano così ‘laicamente’ compromessi con il mondo che i loro monasteri sono diventati la fucina della cultura (arte, letteratura, architettura), dell’agricoltura e  dell’urbanistica della nascente società che sarà ‘europea’.  Dal punto di vista del sacramento dell’ordine, solo gli abati diventavano anche ‘preti’ a servizio delle loro comunità monastiche, ma non i monaci in quanto tali. Ma quando l’esperienza monastica divenne l’esperienza leader della cristianità, la figura dell’abate-sacerdote del monastero si estese e si sovrappose alla figura del vescovo al quale si comincia così a richiedere, per mimesi, il celibato e pertanto si cominciò a scegliere i vescovi tra i monaci che avevano già fatto la promessa del celibato, mentre la maggioranza dei presbiteri delle comunità cristiane restarono con la loro forma ‘laica’ di uomini sposati.

Dunque l’attuale teorema della spiritualità cattolica è cosa ‘moderna’ rispetto alla ‘tradizione’ del primo millennio. Ma questo teorema non è neanche ‘verificato’ nella stessa attualità della chiesa cattolica. Tra i preti più stimati oggi in Italia, ricordiamo fra tutti don Luigi Ciotti, troviamo senza ombra di dubbio quelli profondamente schierati sul fronte del sociale che altro non è che attività politica in senso vero, teso alla introduzione dei valori del Regno nelle realtà ‘mondane’, valore tipico della spiritualità del laicato. Basta inoltre conoscere e frequentare delle comunità neocatecumenali, che nomino solo a titolo di esempio, per imbattersi in laici, dalle famiglie numerose, che hanno fatto della evangelizzazione il perno della loro vita  come e più di tanti preti. Per non parlare poi del mondo dei cosiddetti ‘consacrati’ alla ‘vita religiosa’ che a fronte di una spiritualità che li vorrebbe particolari testimoni dell’escatologia, presentano una gamma completa di possibili forme di vita cristiana, dall’eremitismo classico al più intenso coinvolgimento ‘politico’ al servizio nella società terrena. Tra questi ‘sconfinamenti’ dei limiti imposti dal ‘teorema cattolico’ troviamo anche la questione del celibato dei preti.

Pochi sanno che anche nella chiesa cattolica ci sono preti regolarmente ed ufficialmente sposati che celebrano messa, contrariamente all’onnipresente figura del prete celibatario. Qui bisogna introdurre una distinzione per specialisti: la diversità dei Riti, il Rito Latino e il Rito Greco. Il rito latino è quello tipico della chiesa cattolica che dal 1123 (secondo concilio lateranense) ha imposto il celibato ai preti. Il rito greco è quello tipico della chiesa ortodossa che ha mantenuto il doppio canale del prete celibatario e di quello sposato. Ora il rito greco appartiene non solo a chiese che non riconoscono il papa come autorità suprema, ma anche a chiese in tutto e per tutto ‘ortodosse’, ma unite al papa di Roma. E’ il caso delle ‘chiese uniate’  dell’est Europa (per ‘chiesa uniate’ si intende la porzione di una chiesa ortodossa staccatasi dalla chiesa madre per unirsi all’obbedienza cattolica pur mantenendo tutte le tradizioni del Rito Greco), ma anche della chiesa albanese nel sud dell’Italia, di cui parlerò fra poco qui di seguito. In queste chiese i preti sono nello stesso tempo ortodossi e cattolici. La Chiesa Cattolica ha un apposito Diritto Canonico per le Chiese Orientali, come vengono chiamate, esattamente come il Diritto Canonico per le Chiese di Rito Latino. Secondo il Diritto Canonico delle Chiese Orientali, i preti possono sposarsi, se lo vogliono, prima di essere ordinati sacerdoti. E’ il caso del mio amico e anfitrione Giuseppe Bellizzi, parroco di Falconara Albanese, felicemente sposato con Francesca  e padre di Sofia, Irene e Giuseppe Gerardo.

Ma prima di passare a raccontare la storia di questi miei amici, vorrei completare il quadro parlando del fatto che anche nella stessa Chiesa Cattolica di Rito Latino, dove vige la regola del celibato, troviamo preti in attività pastorale anche se regolarmente sposati. Nei paesi anglosassoni ci sono molti preti cattolici che sono passati dalle loro originarie chiese anglicana, episcopaliana o persino luterana, alla chiesa cattolica. E siccome nelle loro chiese di origine rivestivano il ruolo di pastori, una volta convertiti al cattolicesimo, tramite una procedura particolare che comprendeva anche una nuova ‘ordinazione’ secondo il rito cattolico, sono diventati preti cattolici e hanno continuato la loro attività pastorale mantenendo la famiglia. Curiosamente, le disposizioni vaticane che hanno permesso questa possibilità di avere preti cattolici sposati regolarmente in funzione, sono dovute allo stesso papa che ha invece drasticamente ridotto, se non impedito del tutto la possibilità per i preti cattolici celibi di potersi sposare regolarmente in chiesa pur dovendo abbandonare il ministero sacerdotale: Giovanni Paolo II.

A ben vedere comunque, anche in questo caso, non ci si discosta formalmente dalla tradizione orientale che vuole il sacerdozio dato a chi ha già precedentemente fatto la scelta del matrimonio o del celibato. Per la Chiesa Cattolica, infatti, in questo caso vale l’ordinazione cattolica fatta evidentemente dopo la conversione e quindi anche dopo il loro matrimonio; e non l’ordinazione anglicana o episcopaliana precedente grazie alla quale esercitavano il servizio pastorale nelle loro chiese di origine. Ma è indubbio che questi uomini sono stati ordinati ‘preti cattolici’ sulla base della loro precedente esperienza pastorale nelle chiese di origine.  Dunque fondamentalmente essi sono stati ordinati preti per la loro ‘maturità’ cristiana esattamente secondo il principio tradizionale dell’anzianità (presbitero = anziano) e della saggezza acquisite sul campo, anche grazie – perchè no? –  al loro stato matrimoniale. San Paolo, infatti, dà come regola per eleggere un presbitero o un vescovo, la provata capacità di aver saputo guidare la propria famiglia ed educare i propri figli (1 Tm 3,1-5).

Dopo questa lunga digressione che inserisce il suo caso in un contesto più ampio, torniamo al mio amico Giuseppe Bellizzi; ‘padre Giuseppe’ come viene giustamente chiamato dai suoi parrocchiani. Originario di San Basile (vicino a Castrovillari), uno dei numerosi paesi di origine albanese della Calabria, il mio amico, appena adolescente, come tanta gente della sua regione, era emigrato verso il Nord Italia in cerca di lavoro. E a Milano trascorrerà molti anni. Nella sua esperienza di vita ci saranno anche alcuni anni vissuti con i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld e lo studio della teologia. Quando decide di sposarsi con Francesca Salvador,  insegnante di religione di Codognè (provincia di Treviso, diocesi di Vittorio Veneto), si reca nella sua diocesi di origine per i documenti necessari alla celebrazione del matrimonio religioso. E qui incontra una grande sorpresa che cambierà il corso della sua vita.

In tutti gli anni trascorsi fuori della sua terra natale, Giuseppe Bellizzi si era perfino dimenticato della particolarità della sua Chiesa di origine: il Rito Greco-Bizantino. La Chiesa Cattolica di Rito Greco-Bizantino in Italia è quella relativa alle comunità italo-albanesi che cinque secoli fa, a partire dalla conquista Ottomana dei Balcani, per sfuggire alla sudditanza musulmana, cominciarono a trasferirsi dall’Albania ad alcune regioni dell’Italia del Sud (Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia) e che in questi cinque secoli, in alcuni casi sono riuscite a mantenere intatte non solo la loro lingua albanese, i loro usi e costumi, ma anche la loro tradizione religiosa cristiano-bizantina. Il Rito Bizantino prevede una liturgia particolare, legata alla tradizione greca, ma anche il mantenimento di alcune caratteristiche come il fatto dell’ordinazione sacerdotale di uomini sposati. Il vescovo di Lungro dunque, una di queste diocesi italo-albanesi, nel rilasciare a Giuseppe i documenti richiesti, vista la sua formazione teologica ed ecclesiale, gli fa una proposta che a lui sembrò sul momento davvero strana: “Adesso ti sposi, vivi qualche tempo la tua vita di famiglia cristiana con la tua sposa e poi torna qui. Ci conosceremo meglio e se vorrai ti manderò a fare un anno di liturgia greco-bizantina e poi ti ordinerò presbitero della nostra Eparchia di Lungro”. “Eparchia” è il nome della tradizione greca per “diocesi”.

Giuseppe e Francesca seguirono il consiglio del vescovo: ad un anno dalla celebrazione del loro matrimonio tornarono a Lungro per mettersi a sua disposizione. Il vescovo di Lungro li inviò a Roma dove Giuseppe studierà “Sacra Liturgia” presso il Pontificio Istituto per le Chiese Orientali, mentre Francesca, anche per mantenere gli studi di Giuseppe, insegnerà Religione cattolica in alcune scuole della capitale.  Tornati a Lungro, Giuseppe fu ordinato Presbitero l’8 dicembre del 1988 e fu nominato parroco nella parrocchia di Falconara Albanese, funzione che mantiene ancora oggi. Nel frattempo la famiglia è cresciuta e nell’ordine sono venute Francesca Sofia, Irene Angela e Giuseppe Gerardo, tre splendidi adolescenti con una grande comunicativa e tanta voglia di divertirsi, proprio come tutti i nostri adolescenti, i miei figli ad esempio, con i quali hanno subito familiarizzato e fatto amicizia.

A conoscere i coniugi Bellizzi, non si può che rimanere piacevolmente sorpresi dalla testimonianza di questa famiglia, nella quale si può tranquillamente riconoscere la naturalità propria di ogni esperienza familiare, nella sua dinamica di rapporto fra marito/moglie e genitori/figli; ma nella quale è anche presente con altrettanta naturalezza la pienezza di quel Sacramento dell’Ordine che in niente differisce da quello dei presbiteri celibatari.  Giuseppe Bellizzi infatti è “presbitero” e “pastore d’anime” della Chiesa Cattolica, esattamente come i suoi confratelli non sposati, anche se nella nostra formazione “latina” il sacerdozio sembrerebbe incompatibile con la vita matrimoniale. Del resto, in questo, la tradizione bizantina si riallaccia direttamente e senza soluzione di continuità alla prassi del primo millennio cristiano, anche occidentale e latino: uno dei santi più venerati ancora oggi nel sud Italia è san Paolino da Nola, contemporaneo di Sant’Ambrogio e sant’Agostino, prima presbitero e poi vescovo, pur essendo sposato. Nell’Eparchia di Lungro attualmente i preti con famiglia sono circa una ventina, il 50% del totale dell’intera diocesi.

Nella Chiesa Cattolica, nonostante le ripetute riconferme magisteriali sulla validità permanente del binomio sacerdozio-celibato, il celibato obbligatorio dei preti resta un problema aperto. Ne fanno fede non solo le richieste che provengono sia dalla base di determinate chiese soprattutto del terzo mondo che dalle varie associazioni dei preti sposati, ma anche le sporadiche uscite di eminenti personalità ecclesiastiche al di sopra di ogni sospetto. Nel Dicembre del 2006 il cardinale brasiliano Claudio Hummes, arcivescovo di San Paolo, chiamato da Benedetto XVI a dirigere la Congregazione Vaticana per il Clero riaffermò, in una intervista al quotidiano brasiliano Estrado do S.Paulo, il carattere puramente disciplinare del celibato ecclesiastico, esprimendosi favorevolmente per la sua rimessa in discussione, davanti alla grave emergenza della mancanza di clero. Alla fine del 2007, sia il cardinale inglese Cormac Murphy-O’Connor, Arcivescovo di Westminster e capo della Conferenza Episcopale dei Vescovi d’Inghilterra e Galles (intervista al Financial Times del 21 dicembre 2007), che il cardinale francese Roger Etchegaray, presidente emerito del Pontificio consiglio Giustizia e Pace e vicepresidente del collegio cardinalizio (intervista dell’11 novembre 2007 al quotidiano francese Le Parisien), si sono espressi in favore di una disponibilità a rivedere questa norma disciplinare. Lo stesso aveva fatto il cardinale scozzese Keith Michael Patrick O’Brien, arcivescovo di Saint Andrews ed Edimburgo, al momento della sua nomina a cardinale da parte di Giovanni Paolo II. Spingono in questo senso anche vicende come quella dell’ex prete padovano don Sante Sguotti, oppure il famosissimo arcivescovo esorcista africano Milingo per le note vicende legate al suo matrimonio con l’agopunturista coreana Maria Sung e la sua recente associazione “Married Priest Now”, con la quale si propone di spingere la Chiesa Cattolica alla reintegrazione dei 150.000 preti che hanno abbandonato o sono stati costretti ad abbandonare il ministero presbiterale per essersi sposati.

Dobbiamo però sottolineare che ciò che chiedono i vari Milingo, don Sante e associazioni varie di preti sposati è altra cosa rispetto a come il problema è posto nella storia della Chiesa sia Cattolica che Ortodossa; perché la prassi è sempre stata quella di ordinare ‘preti’ degli uomini già sposati e mai di far sposare preti che avevano optato per il celibato al momento dell’ordinazione. Per questo ritengo che dovrebbero essere non tanto i cosiddetti ‘preti sposati’ di questo tipo a farsi carico della ‘battaglia’ per il ripristino del sacerdozio ‘uxorato’, quanto semmai altre componenti della chiesa non necessariamente coinvolte in modo diretto. La eventuale riapertura, anche nella Chiesa Cattolica, del canale tradizionale del sacerdozio ‘uxorato’ non inciderebbe in alcun modo sull’ortodossia delle Fede Cattolica. Ne è testimonianza il fatto che, come abbiamo mostrato, esistono già preti cattolici regolarmente sposati, che sono contemporaneamente in piena comunione con il magistero ecclesiale e in piena attività pastorale, come il mio amico padre Giuseppe Bellizzi, ad esempio. Basterebbe solo estendere questa possibilità. I tempi potrebbero essere maturi per questo ritorno alla ‘Tradizione’.

 [1] F. PIGNOTTI, Prete cattolico felicemente sposato pur continuando a fare il prete? Si può! Ecco la storia …, in “Il salotto degli autori”, Primavera 2008 (Anno VI, N.22) pp. 30-32

 

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Copertina 3

Alice Beltrami
MAIFEO FIGLIA DELLA LUNA – Racconti di un anno di Servizio Civile in Camerun
Collana “Comunicare la solidarietà” – Ed. ALOE – pp. 176

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RECENSIONE

MAIFEO, FIGLIA DELLA LUNA

Alice, un nome che rimanda a paesaggi fiabeschi, che riecheggia nelle lussureggianti praterie della fantasia umana, un nome che ha dato, invece, una impronta così forte da far invidia agli eroi maschili, di mitologica memoria, troppo epici nella loro lontana dimensione. Cosa ha fatto, dunque, Alice? È andata in Africa, ma non a fotografare qualche strano animale in via di estinzione, da esibire come trofeo, ma in Africa, precisamente nel Camerun, per una missione umanitaria. Scrive un diario che non è solo diario, ma un “iter” poetico che raggiunge una dimensione panica, aliena da ogni raffigurazione astratta. Il suo stile è semplice, immediato ma non arido, con una partecipazione emotiva, come sa fare solo la nostra gioventù quando vola alla ricerca non di paradisi artificiali, ma di solide certezze, benedette dal carisma della fede.

In “Maifeo, figlia della luna”, c’è il trionfo dell’umiltà, della laboriosità che può stancare fisicamente ma apporta una carica umana non indifferente. Alice ha trovato un altro mondo, una concezione totalmente diversa da quella occidentale; è stata catapultata in una realtà non rosea ed ha saputo tirar fuori il meglio di sé, quella parte migliore che si era assopita, omologata alle tendenze europee. Alice è cresciuta, questa piccola grande donna, nei suoi racconti, evita circonlocuzioni verbali, non si perde nei meandri della vacuità e del non senso, ma si serve della parola e delle immagini per scendere in una dimensione interiore.

Il “mal d’Africa” esiste davvero, è difficile da descrivere perché l’anima subisce un percorso metafisico, la parola si fa sinfonia di concetti che lasciano sgorgare emozioni, colori, musica e balli in un sapiente accostamento che ti trasporta in un universo pieno d’amore. La natura africana ti entra dentro, si trasmuta in specchio dell’anima, in un rapporto speculare che produce il sogno, il mondo della favola umana nella quotidianità (questo è il mal d’Africa). Se il tempo cambia, le situazioni si perpetuano nella loro drammaticità e gaiezza, insieme. Se a tutto ciò uniamo quello che Alice ha fatto, sta facendo e farà, cioè un’opera di alta solidarietà, una nuova alleanza di pacificazione e rigenerazione spirituale, si evince, in modo chiaro, che:

“vivere una sola vita
in una sola città
in un solo paese
in un solo universo
vivere in un solo mondo
è prigione.”
Ndjock Ngana, poeta camerunese

Nella universalità e nella originalità del suo essere, del suo esistere, del suo operare nel mondo e per il mondo, i 27 anni di Alice assumono una valenza simbolica di sfida, vinta su aberranti solitudini, di vittoria sul materialismo sterile e marmoreo, vittoria sulle inevitabili debolezze umane, piccole, ma grandi, nella loro innocente ammissione. Grandi sentimenti, piccole cose, dolci emozioni, grandi responsabilità, fantasmagorici sogni, sono gli ingredienti che Alice ha usato ed è riuscita ad elaborare una sua personale “cifra” stilistica ed innescarla in solidali percorsi creativi.

Affinché tutto ciò sia trampolino di lancio per futuri successi, auguro ad Alice un avvenire sereno, ricco di gioia duratura, con sincera stima e viva cordialità.

Danila Angelici

 

PRESENTAZIONE LIBRO
Presentazione “Maifeo. Figlia della luna” – Parte 1

Presentazione “Maifeo. Figlia della luna” – Parte 2

Presentazione “Maifeo. Figlia della luna” – Parte 3

Presentazione “Maifeo. Figlia della luna” – Parte 4

Presentazione “Maifeo. Figlia della luna” – Parte 5